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Naka

Posted by Taianokai on Giugno 2, 2009

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 Il kanji Naka (Chuu in cinese) significa “in mezzo”, “tra, “dentro”, “metà” e simboleggia la via di mezzo, la via dell’equilibrio, come anche l’essere dentro le cose.

 

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 Qui sotto, il medesimo kanji in inchiostro su carta di Hakuin Ekaku, XVIII secolo.

La calligrafia ai lati recita:

 

              «La meditazione dentro l’azione è cento milioni di volte meglio

              della contemplazione nell’immobilità».

 

 

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Fonte:  Giappone – Scoprire le civiltà – La biblioteca di Repubblica – L’Espresso.

 

 

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NAKA: la via di mezzo o via dell’equilibrio. Stimolante, e non  del tutto azzardato, ‘saltare’ dal giapponese al latino – e perciò dall’Estremo Oriente in Occidente – per accostarvi  la virtù della MEDIOCRITAS.

 

«Mediocre, dal latino MEDIOCREM da MEDIUS, che è in mezzo. Che è in mezzo fra gli estremi; Che sta fra il molto e il poco, fra il grande e il piccolo, fra il buono e il cattivo: e dicesi piuttosto di proprietà astratte che non di quantità o di sito.

Fonte: www.etimo.it

 

 

 La mediocritas corrisponde alla “moderazione”, a una misura rapportata al “giusto mezzo”: “auream quisquis mediocritatem diligit” (Orazio, Carmina, II 10; “ciascuno ama la preziosa medierà”); “mediocritas optima est” (Cicerone, De officiis, I 36; “ottima è la medierà”). Con queste peculiari caratteristiche, la mediocritas è la categoria sulla quale si fondano tutte le regole del comportamento etico: la virtù non è altro, infatti, già dal mondo antico, che la “via di mezzo” fra l’eccesso e il difetto: in termini propriamente quantitativi. Il criterio della  mesòtes (o del “giusto mezzo” nella misura) è esposto da Aristotele nell’Ethica nicomachea e nei Magna moralia, ed entra subito a regolare (e valutare) i comportamenti morali del mondo antico. Plutarco ne fornisce la seguente definizione: “Ella [la virtù] sarà dunque nel mezzo, nello stesso modo in cui l’armonia è tra due voci estreme, una troppo acuta, l’altra troppo grave”.

Difficile per noi comprendere questa economia della virtù come giusto mezzo tra opposti estremismi, anche perché ormai il significato di mediocrità è del tutto compromesso in altro senso (cioè come “scarso valore”): e per questo qui si parla di mediocritas, in latino.

Nel mondo antico e poi, anche attraverso le rielaborazioni aristoteliche realizzate da Tommaso d’Aquino, sino alla cultura classicistica del mondo moderno, la categoria della mediocritas è il cuore profondo del sistema generale della virtù: ogni singola virtù, infatti, si colloca al centro tra due opposti eccessi (ad esempio, la liberalità tra prodigalità e avarizia). Questa etica della medietà elabora anche parole d’ordine celeberrime: “in medio stat virus” (“la virtù sta nel mezzo”). E sempre al valore del “giusto mezzo” rimanda l’espressione oraziana “est modus in rebus” (Orazio, Sermones, I 1: “ogni cosa ha la sua misura”). Il concetto è altresì implicito nel “ne quid nimis” (Terenzio, Andria, I 1: “mai nulla di troppo”): anche questo enunciato è divenuto proverbiale.

 

     Polyanthea circoscrive l’ambito della mediocritas inter excessum et defectum” (“tra eccesso e difetto”: una posizione mediana tra il troppo e il troppo poco), collegandola a una serie di categorie affini come il mezzo, la misura, il modo: alla famiglia semantica della mediocritas appartiene, inoltre, la categoria estetica della proporzione. Ancora in Polyanthea si legge questa sintetica definizione: “Medium in omnibus est laudabile” (“in ogni cosa la posizione mediana è lodevole”).
Come qualità retorica, la mediocritas corrisponde allo stile medio: “erat enim et adtenuata verborum constructio quaedam et item alia in gravitate, alia posita in mediocritate (Rhetorica ad Herennium, IV 10; “c’era dunque uno stile semplice, uno sublime, uno mediocre”).

 

     La topica umanistica e rinascimentale eredita dagli Antichi il concetto di mediocritas, cui è attribuito un valore profondo sia in senso etico che in senso retorico: strettamente congiunta all’altra regola fondamentale del sistema classicistico cinquecentesco, ovvero la sprezzatura, la teoria del “giusto mezzo” si pone come la norma regolatrice dei rapporti interpersonali. Pontano la considera come il principio ispiratore di una piacevole conversazione, l’ideale di quell’equilibrio, di quella misura che corrispondono all’urbanitas: “Igitur haec ipsa mediocritas, de qua nunc disserimus, versatur potissimum in habendo delectu, ne aut ad nimiam declinemus verborum gratificationem quae levis sit ac vana” (Pontano, De sermone, I 23 5: “Questa mediocrità di cui ora parliamo riguarda soprattutto il modo di avere diletto, per non gratificarci troppo di parole leggere e vane”).


     La mediocritas, intesa nel senso di “debita misura”, compare nel Cortegiano: “è adunque securissima cosa nel modo del vivere e nel conversare governarsi sempre con una certa onesta mediocrità” (II 41); “ma con tal maniera di bontà, che si faccia estimar non men pudica, prudente e umana, che piacevole, arguta, discreta; e però le bisogna tener una certa mediocrità difficile e quasi composta di cose contrarie” (III 5).


     Numerose sono le occorrenze di mediocritas nel dialogo tassiano dedicato al problema della virtù: corrisponde ovviamente a medietà e a moderazione: “la mediocrità dunque della virtù morale consiste nel mezzo che si considera per nostro rispetto, nel quale ella si fa con elezione”
(Tasso, Il Porzio o della virtù, 106).
Nella Civil conversazione è la stessa forma sociale della conversazione, la sua civiltà, a rappresentare compiutamente la strada virtuosa perché intermedia fra la vita solitaria e le abitudini volgari della plebe.


     Per Ripa l’immagine della mediocritas è quella di una “donna con la destra mano tenga un leone ligato con una catena e con la sinistra un agnello ligato con un debole e sottil laccio, dimostrandosi per essi due estremi il troppo risentimento e la troppo sofferenza, e tenendo detta donna il luogo di mezzo tra questi estremi di fierezza e di mansuetudine, per li quali veniamo in cognizione d’ogn’altro estremo in ciascun abito dell’animo, ci può esser vero ieroglifico di mediocrità, la quale si deve avere in tutte l’azzioni, accioché meritino il nome e la lode di virtù” (Iconologia, 28)».

 

Paola Casentino, www.italica.rai.it/rinascimento

 

 

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Evidenze

 

Al latino “ne quid nimis” di Terenzio: “mai nulla di troppo”, corrisponde il greco “meden agan” scolpito sul tempio di Apollo a Delfi, ove figura anche il famoso “gnothi sauton”: “conosci te stesso”. Intrigante, ‘tornando’ in Giappone, il legame con le “tre M” da evitare, concernenti la produzione industriale e riferibili anche all’Arte della Spada, ed in particolare a KIMOCHI: il sentimento profondo, l’anima che trasmette emozioni, senza la quale non v’è Budo.

 

 

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Il termine kimochi è scritto utilizzando due kanji: ki (spirito, energia vitale) e mochi (dal verbo motsu che significa tenere, avere, possedere.

Fonte: www.nipponico.com 

 

 

«La prima M è Muda che si può tradurre come perdita o spreco […] per il Maestro Yamazaki, Muda è togliere gli sprechi, togliere il superfluo, ossia togliere dai nostri gesti tutto quello che non è essenziale. E’ un concetto noto nello Iaido sul quale hanno già insistito altri Maestri , per esempio il Maestro Ide. Significa fare uno Iaido sobrio, essenziale […] Evitare Muda nello Iaido significa evitare tutti quei gesti superflui che troppo spesso “sporcano” l’esecuzione dei nostri kata e realizzare il movimento nel modo più naturale e più essenziale possibile.

 

La seconda M è Muri traducibile con eccesso, sforzo […]Il Maestro Yamazaki ha spiegato questo principio per lo Iaido dicendo che bisogna evitare di mettere nel gesto che facciamo delle cose in più, delle cose che non servono. Bisogna fare le cose in modo semplice e naturale, cercando solo le cose che servono ed evitando movimenti forzati, difficili o innaturali. Il primo esempio che ha fatto il Maestro per farci capire il concetto è l’eccesso di forza. Esempio facile visto che gli occidentali spesso mettono troppa forza nell’usare una spada giapponese, troppa forza nella mano destra, troppa forza nelle spalle ecc. Bisogna invece togliere l’eccesso di forza inutile, applicare forza solo dove serve e nel modo corretto, naturale. Un altro esempio utilizzato dal Maestro è la velocità di esecuzione. Mettere velocità in tutto il kata è un eccesso. Bisogna mettere velocità nel momento in cui questo serve.

 

La terza M è Mura traducibile in diversi modi. Il più comune è incompatibilità, discrepanza. È un concetto strettamente collegato a Muri […]Adattare questo termine allo Iaido è sicuramente difficile, una prima interpretazione data dal Maestro, la più semplice, è cercare di evitare la variabilità che spesso si riscontra nella pratica di tutti noi, praticare con regolarità evitando rotture di ritmo. Bisogna ricercare nella pratica un movimento equilibrato, fluido evitando invece i movimenti meccanici o artificiali. L’assenza di fluidità nei movimenti porta inevitabilmente ad una rottura della continuità e naturalezza dell’azione. Per cercare di farci capire meglio il Maestro ha fatto l’esempio della spigolosità di un quadrato contrapposta alla perfezione di un cerchio. Il Maestro Yamazaki ha dato anche un’ interpretazione più complessa a Mura dicendo “togliere quello che blocca il nostro cuore”, togliere gli ostacoli al flusso naturale. Gli insegnamenti che abbiamo ricevuto negli anni spesso si possono stratificare dentro di noi, ci possono bloccare e possono impedirci di manifestare liberamente il nostro cuore. Ad un certo punto della pratica bisogna liberare la propria mente dalle “scorte” e tornare a manifestare quello che i giapponesi chiamano shoshin “una mente da principiante” , libera da formalismi, da stratificazioni mentali, da pensieri. Solo così, secondo quanto dice il Maestro si può finalmente realizzare uno Iaido che, spazzando via la nostra mente razionale, abbia kimochi e produca kimochi in chi lo guarda (“kimochi ga kawaru”: “avvertire un cambiamento del cuore” ndc).

 

Fonte: www.kiryoku.it (da un discorso del Maestro Yamazaki Masahiro 8° dan hanshi di Iaido a Sportilia, giugno 2005).

 

 

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Il termine rinascimentale sprezzatura indica la capacità (molto giapponese!) di controllarsi in modo disinvolto: “Jibun no kimochi o osaeru”, evitando l’affettazione.

 

«Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né piú in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e piú tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ‘l studio e l’arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa».

Baldassar Castiglione, Il Libro del Cortigiano.